Epistemologia ed ermeneutica della scienza giuridica

Prof. Francesco Viola


Abstract: Assuming that legal science has a normative and historical character, the question is how it can adjust itself to the present transformations of positive law, marked by constitutionalism and the primacy of actual case. After a concise analysis of the main changes in legal science, it will be criticized the analytical model of jurisprudence. We uphold the thesis that hermeneutical philosophy can help contemporary legal science in a better way, because it allows to rid of imperativistic model, to emphasize the role of practical reasonableness and to develop a wide reflection upon the global sense of the law, linked to the idea of justice.


Uno dei compiti fondamentali della filosofia del diritto è quello dello studio della scienza giuridica, dei suoi metodi e della sua metodologia. Questa riflessione sulla scienza richiede una stretta collaborazione tra il giurista e il filosofo. Infatti, soltanto chi applica i metodi nella ricerca sul campo è in grado di elaborare attraverso una riflessione un'adeguata metodologia e, tuttavia, solo l'apporto del filosofo consente di confrontare questa metodologia con quella delle altre scienze e di cogliere le presupposizioni concettuali e le implicazioni culturali dei metodi esatti. La metodologia della scienza giuridica è il risultato della riflessione congiunta di giuristi e filosofi del diritto. Ciò è proprio di tutte le scienze e in particolare delle scienze sociali.

La scienza giuridica -a differenza delle scienze naturali e più di tutte le altre scienze sociali- ha un particolare rapporto con il suo oggetto: non solo lo osserva e lo studia, ma contribuisce anche a formarlo. Da una parte, la scienza giuridica è scienza del diritto, ma d'altra è essa stessa facente parte del diritto. Ciò è vero in molteplici sensi. Ci sono state epoche in cui la scienza del diritto era fonte del diritto (nel diritto romano i giusperiti, nel diritto comune l'auctoritas doctorum, nel diritto tedesco dell'Ottocento lo Juristenrecht...). Una legge e, ancor più, un codice di leggi sono elaborati da giuristi, che vi trasfondono le loro dottrine. L'interpretazione dei testi di legge operata dai giuristi di fatto influenza l'opera dei giudici. Un sistema giuridico è il risultato dell'opera congiunta dei legislatori, dei giuristi e dei giudici. Più in generale, si deve affermare che la scienza giuridica contribuisce a dar forma e a modificare il suo oggetto, cioè il diritto. Questa connessione tra scienza giuridica e diritto è maggiore che nelle altre scienze sociali e bisogna tenerne il giusto conto. In realtà la scienza giuridica è una scienza sociale normativa: ciò significa che è un conoscere per agire, un conoscere per deliberare e decidere l'azione "giusta" da farsi.

La scienza giuridica è un'impresa complessa che ha due aspetti inscindibili. Essa è innanzi tutto un'arte, l'arte dell'interpretare testi o, comunque, regole sociali preesistenti. In quanto arte è un'abilità che richiede una competenza specifica con proprie regole interne (come l'arte del calzolaio o del falegname). In quanto arte, la ragione della sua opera risiede nell'applicazione. S'interpreta il diritto per applicarlo ai casi concreti. Quest'applicazione è operata -come si sa- dal giudice e non già direttamente dal giurista. Il giurista si è allontanato sempre più (rispetto al diritto romano) dal fine della sua attività conoscitiva e, tuttavia, è sempre in vista di questo che ha senso la ricerca del significato dei testi giuridici. Il secondo aspetto della scienza giuridica è la costruzione dei concetti dogmatici. Si tratta di categorie generali che sono tratte dal materiale interpretativo e che, al contempo, contribuiscono a metterlo in ordine. La scienza giuridica risponde così al compito di razionalizzazione del diritto, compito necessario ai fini della coordinazione delle azioni sociali. Un diritto prodotto dalla volontà del legislatore ha bisogno di essere ricondotto ad un tutto coerente se vuole essere affidabile e vuole rispondere all'impresa di governare e di guidare le azioni sociali dei cittadini. L'allontanamento della scienza giuridica dalla prossimità dell'applicazione ha prodotto un'accentuazione dei suoi compiti dogmatici rispetto ai compiti propri dell'arte dell'interpretare.

La scienza giuridica ha un carattere storico, perché il diritto ha un carattere storico. Il diritto positivo è prodotto dagli uomini che sono "animali culturali". Ad ogni assetto culturale corrisponde, dunque, un assetto specifico del diritto e, conseguentemente, una forma specifica della scienza giuridica che userà i metodi più adatti per interpretare il suo oggetto così come si presenta. Vi sono differenti paradigmi della scienza giuridica. Per questo ogni discussione sulla natura della scienza giuridica deve essere storicizzata. Non bisogna confondere, pertanto, due questioni. La prima è quella riguardante il modo più adatto di concepire la scienza giuridica e i suoi metodi nelle condizioni attuali del suo esercizio e la seconda è la questione filosofica della conoscenza del diritto positivo, cioè cosa vi sia -se v'è- di comune tra tutte le differenti forme di conoscenza del diritto. Anche questi due problemi sono connessi, perché la descrizione dello stato attuale della scienza giuridica è guidata dal modo d'intendere in generale i compiti della scienza giuridica.

Ci soffermeremo ad osservare alcune questioni riguardanti il primo problema, quello dello stato attuale della scienza giuridica, e alcune questioni riguardanti il secondo, cioè quello riguardante il senso del conoscere il diritto. Mostreremo in che modo tali questioni sono interdipendenti.

Per comprendere lo stato attuale della scienza giuridica bisogna rendersi conto che essa partecipa dell'epoca culturale presente, che non senza ragioni è stata definita come "post-modernità". Ciò significa una situazione culturale che vive della frammentazione del passato, avendone smarrita l'unità senza rigettarne i princìpi. La modernità per la scienza giuridica è costituita dalla concezione illuministica del diritto che ha conosciuto la sua espansione nell'Ottocento, cioè quando l'illuminismo come tale era ormai finito. Nell'analisi che segue mi limiterò all'esperienza del diritto codificato, cioè a quella propria dei paesi dell'Europa continentale. Un discorso molto diverso, ma a volte solo in apparenza, dovrebbe essere fatto per i paesi anglosassoni. Tuttavia oggi molti notano un processo di avvicinamento tra queste due principali culture giuridiche.

L'idea illuministica del diritto è governata dalla convinzione che il compito del diritto sia quello di razionalizzare la vita sociale, cioè di organizzarla mediante regole generali e certe. Questa pianificazione non è il frutto di un processo spontaneo o di una mano invisibile, ma della volontà politica suprema, che si esprime negli organi legislativi e amministrativi dello Stato. La legge in quanto norma generale e astratta è, dunque, l'espressione propria del diritto. La scienza giuridica deve assecondare questo obiettivo del diritto. Lo fa, innanzi tutto, interpretando la legge, cioè cogliendone un significato concepito come preesistente. E lo fa anche dando ordine a ciò che il legislatore non è riuscito ad ordinare e colmando le eventuali lacune dei testi legislativi. La scienza giuridica ha, dunque, il compito generale di razionalizzare la volontà del legislatore, cioè di portare la luce della ragione all'interno del mondo artificiale della decisione.

Com'è noto, questo compito ha dato vita alla "dogmatica giuridica", che è la forma che la scienza giuridica ha assunto nell'età della codificazione. Non posso dilungarmi sulle caratteristiche di questa forma della conoscenza giuridica. Ne indicherò alcune particolarmente importanti dal punto di vista epistemologico.

  1. Secondo la concezione dogmatica tradizionale la scienza giuridica deve atteggiarsi rispetto al suo oggetto perfettamente come se essa avesse a che fare con un fenomeno naturale, cui niente è possibile aggiungere, né sottrarre [Bergbohm].
  2. Il sistema giuridico è pensato come un ordinamento di norme, chiuso, completo, autosufficiente e impermeabile all'influsso di fattori esterni.
  3. Le decisioni giuridiche debbono essere dedotte dal sistema normativo-concettuale esclusivamente per mezzo della logica. Questo è il metodo della sussunzione del caso particolare nella fattispecie astratta della norma.
  4. La logica è la fecondità interna del diritto. Da gruppi di norme è possibile astrarre concetti dogmatici, da cui a loro volta è possibile dedurre nuove conseguenze giuridiche, espandendo dall'interno il sistema.

Da queste considerazioni si può trarre la configurazione della scienza giuridica come naturalistica, astorica, indifferente ai mutamenti sociali e avalutativa. L'interpretazione giuridica è intesa come una mera riproduzione della volontà del legislatore e non già come trasformazione o rielaborazione del materiale giuridico.

Questa è l'immagine ufficiale della scienza giuridica nell'età della codificazione. Ciò non significa che di fatto l'opera del giurista fosse avalutativa e insensibile alla trasformazione della società, e neppure che l'applicazione dei metodi interpretativi fosse meramente riproduttiva. Ma significa che mediante questa ideologia della scienza giuridica il giurista ha coperto e nascosto operazioni di tipo ben diverso. Tuttavia la persistenza di quest'immagine ideologica della scienza è stata elevata, tant'è che ancora oggi essa influenza la mentalità del giurista.

Fattori di vario genere hanno contribuito, dall'Ottocento ai nostri giorni, a screditare sul piano teorico e fattuale questo modello di scienza giuridica. Questi fattori sono tanto numerosi e complessi che è impossibile anche solo elencarli in modo soddisfacente. Trascurerò completamente i fattori sociali, politici e culturali esterni, che pure sono i luoghi in cui risiedono le cause fondamentali della trasformazione, per concentrarmi sulla cultura giuridica interna.

Il fenomeno giuridico nuovo più macroscopicamente rilevante è la detronizzazione della legge. Essa ha perso il suo primato e la sua centralità nel momento in cui è subordinata ai princìpi della costituzione. Si obietterà subito che anche la costituzione è una legge, essendo il prodotto della volontà dei membri di un'Assemblea costituente, ma questa "legge" ha una struttura profondamente diversa e viene applicata in modo molto differente. C'è un ampio dibattito oggi su questo tema sollevato per la prima volta dal teorico del diritto americano Ronald Dworkin. Il meno che si possa dire è che i princìpi della costituzione sono indeterminati, mentre il modello ottocentesco di norma giuridica è all'insegna di un'elevata determinatezza proprio per assicurare la certezza del diritto e neutralizzare l'opera creativa dei giudici e dei giuristi. Il principio costituzionale indica un orientamento valorativo, un valore prioritario da rispettare o un'esigenza imprescindibile della convivenza civile, ma da tutto ciò si devono trarre regole più precise per governare i comportamenti concreti. Queste regole, però, sono più condizionate dalla particolarità dei casi, cosicché può succedere che casi diversi richiedano regole diverse per rispettare lo stesso principio. Queste considerazioni hanno effetti notevoli nel modo di pensare il diritto e la scienza che lo studia.

Ora la centralità del fenomeno giuridico risiede non più nella norma generale e astratta, ma si sposta a monte e a valle. A monte ci sono i princìpi costituzionali, che sono giustamente stati considerati come il «dover essere del diritto positivo» [Ferrajoli], cioè i valori giuridici per eccellenza. A valle ci sono i casi concreti da giudicare con regole apposite. Ed allora il diritto appare più chiaramente ciò che è sempre stato, cioè la regola del caso concreto. È questa infatti che il giudice applica effettivamente per risolvere la controversia. Alla sua luce tutto il resto viene considerato come il materiale giuridico o le risorse da cui il giudice, attraverso l'interpretazione, trae la regola del caso concreto (ipsa res iusta). Ciò contribuisce ad avvicinare l'esperienza giuridica dell'Europa continentale al diritto giudiziale anglosassone e rende possibile la realizzazione del sogno di una certa unificazione del pensiero giuridico, se non del diritto stesso. Non è un caso se il pensiero di Dworkin, che è profondamente imbevuto della cultura giuridica anglosassone, abbia avuto un grande successo nell'Europa continentale.

Questi due fenomeni interni alla cultura giuridica hanno presupposti e implicazioni di grande rilievo. Anche qui mi limiterò a citarne soltanto alcuni, quelli a mio giudizio più importanti.

L'identificazione del nucleo dei valori giuridici nei princìpi costituzionali presuppone il passaggio dalla politicizzazione del diritto alla giuridificazione della politica. Lo Stato di diritto dell'Ottocento è, infatti, costituito dall'insieme di regole che sono prodotte dal potere politico. Il diritto dipende dalla politica, cioè dalla volontà del sovrano. Questa è concepita come assoluta. Ciò significa -come dirà Kelsen- che il diritto può avere qualsiasi contenuto. La sua essenza sta nella forma, donde una concezione formalistica del diritto. La scienza giuridica è la scienza delle forme astratte del diritto. Ma questo non si può più affermare per lo Stato costituzionale di diritto. Qui si riconoscono determinati valori etico-giuridici che sono superiori alla volontà dei legislatori. Una costituzione, infatti, è un insieme di vincoli che sono posti alla decisione politica, una sorta di terra sacra e inviolabile che il potere politico non può calpestare, un insieme di esigenze che sono sottratte per principio alla negoziazione politica. Questo primato del diritto sulla politica è un fenomeno in progressiva accelerazione, tanto da fare temere che si stia perdendo il senso stesso della politica. In ogni caso non si potrà più dire che il diritto può avere qualsiasi contenuto, perché deve essere conforme ai valori costituzionali. A questo fatto bisognerebbe aggiungere la crisi della sovranità dello Stato e i fenomeni d'integrazione sovranazionale dei sistemi giuridici nazionali e regionali. Tutto concorre a sottrarre il diritto al monopolio dello Stato, cioè della politica.

La rilevanza del caso concreto, a sua volta, contribuisce a conferire un peso sempre maggiore all'attività interpretativa del diritto. Infatti la regola del caso concreto non può essere scritta dai legislatori, ma è tratta ed elaborata dall'interpretazione e dall'applicazione del diritto, è il suo risultato. Ed allora l'attività interpretativa non può essere più meramente concepita come ricognitiva di un significato preesistente, ma è senza dubbio creativa di diritto. Evidentemente il problema che subito sorge è quello della violazione della separazione dei poteri tra legislatori e giudici e quello dell'incertezza del diritto. In ogni caso si tratta per la scienza giuridica di rielaborare una teoria dell'interpretazione ben distinta da quella propria dell'epoca della codificazione. Questa spiega la terza novità che vorrei focalizzare.

Per ridimensionare e controllare il carattere creativo dell'interpretazione giuridica non c'è che una via: quella di dare rilievo al ragionamento e al ruolo della ragione nel diritto. Per giustificare la correttezza di un'interpretazione bisogna, infatti, argomentare e portare ragioni soddisfacenti. Abbiamo visto che la scienza giuridica dell'età della codificazione s'è servita di una ragione di tipo logico-deduttivo, di una ragione forte che garantisce la fedeltà ai dettami del legislatore. Ma ora ci si chiede se questa sia l'unica forma della ragione giuridica e se non sia necessario far ricorso ad altre forme di ragionamento e, in particolare, a quelle di tipo retorico e persuasivo, alle ragioni del probabile. In ogni caso ognuno si renderà conto della portata rivoluzionaria di quest'orientamento nei confronti dell'epistemologia della scienza giuridica.

Non si può chiudere questo abbozzo, peraltro imperfetto, della situazione giuridica attuale senza accennare ad una svolta avvenuta nell'ambito del pensiero giuridico in generale. Dobbiamo al giurista e filosofo del diritto inglese Herbert Hart l'avere sostenuto che una descrizione adeguata del diritto è quella compiuta dal «punto di vista interno», cioè dal punto di vista di coloro che non si limitano a registrare l'esistenza delle norme giuridiche e di un meccanismo di coercizione, ma «usano le norme come criteri di valutazione del comportamento proprio e di quello degli altri», cioè come giustificazione delle azioni. Questa prospettiva s'è diffusa rapidamente nell'ambito della teoria del diritto e ha implicato una trasformazione radicale nella considerazione della "ragione giuridica". Il diritto, osservato da un punto di vista interno, diventa una componente del processo di deliberazione che porta alle decisioni e, conseguentemente, alle azioni. Poiché questo processo è costituito dal soppesare le ragioni pro e contro, allora anche il diritto deve essere considerato come un complesso di ragioni per l'azione, cioè di ragioni per compiere una determinata azione o per astenersi dal compierla [Raz]. Individuare la tipicità e le caratteristiche peculiari delle «ragioni per agire», in cui consiste il diritto, e distinguerle dalle altre categorie, diventa così il compito della teoria del diritto. L'adozione del punto di vista interno comporta, dunque, l'inserimento della teoria del diritto negli orizzonti della ragion pratica e questa è una novità per la scienza giuridica del Novecento, una novità ricca d'implicazioni notevoli e di sviluppi sorprendenti. Questa svolta è stata possibile quando ci si è resi conto che la prospettiva pratica ha una capacità esplicativa nei confronti di oggetti, come le azioni umane, il cui senso riposa nei fini e negli obiettivi che gli agenti si propongono. Conseguentemente non si potrà capire il senso del diritto se non conoscendo le ragioni che esso offre per il compimento di azioni sociali che altrimenti non si porrebbero in essere.

A. La scienza giuridica contemporanea si trova, dunque, ad amministrare questa nuova situazione sociale, politica e culturale da cui trae alimento il senso del diritto. Si tratta -come ognuno può capire- di un riassetto generale dello statuto epistemologico della scienza giuridica e del suo ruolo nei confronti della comprensione e dell'applicazione del diritto. Ciò non vuol dire che i vecchi paradigmi debbano essere gettati via, ma neppure che debbano essere semplicemente "aggiornati". La novità non consiste tanto nell'apparato concettuale, ma soprattutto nel senso specifico della scienza giuridica come impresa conoscitiva. Per questo ritengo che il punto cruciale del dibattito contemporaneo di teoria del diritto risieda nel modo d'intendere la ragion pratica all'interno della scienza giuridica. Questo è lo status quaestionis e qui riposano le radici filosofiche delle teorie della scienza giuridica del nostro tempo. Senza pretendere di offrire una risposta, vorrei ora offrire qualche informazione e riflessione a proposito della ragione giuridica come ragion pratica, mostrando come essa sia strettamente connessa alla problematica dell'interpretazione.

B. Oggi andiamo alla ricerca di una griglia filosofica ed epistemologica in grado di edificare una teoria della scienza giuridica che tenga conto di tutti i fattori di trasformazione. I modelli in competizione sono quelli provenienti dalla filosofia analitica e dalla filosofia ermeneutica. D'altronde -com'è noto- queste sembrano essere le due correnti filosofiche principali del nostro tempo. Vorrei brevemente confrontare questi due paradigmi non soltanto per andare alla ricerca di quello più esplicativo, ma soprattutto per mostrare che, nonostante le differenze, i problemi sono in un certo senso comuni.

C. La teoria analitica del diritto concentra il ruolo della scienza giuridica nell'analisi del linguaggio dei testi giuridici. L'assunto filosofico è il seguente: il diritto è linguaggio. La norma stessa si presenta come un enunciato linguistico diretto a veicolare un significato di tipo prescrittivo. Su questo linguaggio-oggetto si sviluppa il discorso della scienza giuridica, che è, pertanto, «discorso sopra un discorso», ossia un meta-linguaggio di carattere descrittivo [Bobbio]. Questa originaria direzione di pensiero, influenzata dal neopositivismo, si poteva ben adattare alla tradizionale dogmatica giuridica e al suo oggettualismo normativo. Tuttavia dalla stessa filosofia analitica, nella misura in cui si andava liberando della metafisica neopositivistica, scaturiscono le critiche a questa immagine descrittivistica della scienza giuridica. Se l'analisi filosofica è volta ad operare una terapia del linguaggio in modo da eliminare i fraintendimenti e le trappole linguistiche, allora non si può evitare che il giurista trasformi il linguaggio del legislatore e con ciò stesso s'impegni in giudizi interpretativi segnati da valutazioni. In effetti è ormai ampiamente riconosciuto che il confine tra linguaggio-oggetto e meta-linguaggio non si può tracciare in modo netto e rigoroso [Viola 1994]. D'altronde ciò è pienamente conforme a quell'intreccio tra diritto e scienza giuridica che sopra abbiamo notato. Alle conseguenze valutative della terapia linguistica si deve aggiungere la grande rilevanza di una concezione del significato che si è consolidata nell'ambito della filosofia analitica ad opera del "secondo Wittgenstein". Mi riferisco ovviamente alla teoria del significato come uso. Questa teoria non solo rifiuta l'idea che i significati siano attaccati alle parole come "oggetti o entità linguistiche", ma soprattutto implica la considerazione stessa del linguaggio come una pratica sociale legata ai comportamenti e alle intenzioni di coloro che lo usano per realizzare nel mondo i loro obiettivi vitali. Ciò significa che, quando si afferma che il diritto è linguaggio, ci si riferisce ad una prassi, ad una forma di vita legata a contesti storici di esercizio, a comunità interpretanti. Il linguaggio, infatti, è per definizione "pubblico". Esso è legato alle intenzioni degli utenti, ma queste intenzioni si comprendono solo all'interno di una forma di vita. Intendere e comprendere sono tra loro strettamente interdipendenti. Come dice Wittgenstein , «intendere è come dirigersi verso qualcuno».

D. Queste evoluzioni interne alla filosofia analitica appartengono in realtà ad un universo culturale più ampio. Esse permettono di pensare la scienza giuridica non più soltanto come scienza di norme, ma anche come scienza di comportamenti. Si va affermando, così, l'idea che il diritto sia una pratica sociale complessa, in cui fatti e norme sono tra loro collegate, perché i fatti si comprendono attraverso le regole e queste sono a loro volta governate da "beni interni", cioè dai valori che la pratica mira a realizzare [Viola 1990]. Non si agisce, infatti, se non per uno scopo. In quest'ottica è più che mai evidente che la ragione propria della scienza giuridica è la ragion pratica, cioè il conoscere per agire. La ragion pratica non può essere intesa come una applicazione della ragione teoretica, ma essa è una forma conoscitiva ben distinta dotata di un proprio statuto epistemologico. Ma è a questo punto che si fanno evidenti i limiti e le difficoltà dell'approccio analitico alla scienza del diritto. La filosofia analitica, infatti, non conosce alcuna terza via rispetto alla dicotomia carnapiana tra le scienze formali e le scienze empiriche. Solo di recente, ad opera di Searle, la filosofia analitica sta sviluppando una teoria dei fatti istituzionali. Gli ultimi orientamenti della teoria analitica del diritto si volgono, quindi, ad una utilizzazione della pragmatica linguistica come modello per la scienza giuridica.

E. Vediamo ora quale paradigma della scienza giuridica può trarsi dal pensiero ermeneutico. In realtà -come ha mostrato Gadamer- la stessa ermeneutica filosofica ha tratto ispirazione dalla tradizione della scienza giuridica, che ha da sempre usato procedimenti di tipo ermeneutico. Tuttavia questi restavano confinati nell'arte dell'interpretazione, cioè nell'ambito di una "tecnica", senza assurgere ad una teoria della giurisprudenza. Ancora oggi l'ermeneutica giuridica così com'è praticata dai giuristi difficilmente si eleva al di sopra dell'uso metodico dei canoni ermeneutici. Gli sviluppi attuali della filosofia ermeneutica permettono, però, di fare un passo innanzi verso una teoria ermeneutica della scienza giuridica.

F. Abbiamo già notato la centralità dell'interpretazione nell'elaborazione della scienza giuridica. Ma una teoria della scienza deve esibire una giustificazione del suo modo d'intendere il ruolo dell'interpretazione. Secondo la scienza giuridica dell'età della codificazione e secondo la teoria analitica l'interpretazione è necessaria per il rispetto della volontà dell'autorità. Secondo la filosofia ermeneutica, invece, la giustificazione dell'interpretazione riposa sul carattere pratico dell'esperienza giuridica, cioè dall'esigenza di trovare il senso delle azioni sociali. Ciò significa che le radici dell'interpretazione si debbono ritrovare nella comprensione. Il centro filosofico dell'ermeneutica non si trova nell'interpretare ma nel comprendere. L'interpretazione come attività acquista un senso proprio perché avviene all'interno di una preliminare comprensione, che è il vero e proprio luogo del «senso». Ogni attività ha un significato solo all'interno di una totalità di senso. Di conseguenza la comprensione precede e condiziona l'interpretazione che a sua volta la sviluppa, la corregge e la libera dai fraintendimenti. Questa considerazione si appoggia su osservazioni elementari. Se non anticipiamo il senso del nostro discorso, non riusciamo neanche a costruirlo. Anche nella ricerca scientifica, perché il dato sia enucleato, occorre prima anticiparne il senso e poi verificarlo con il controllo sperimentale. Ma per la filosofia ermeneutica tutto ciò assume una rilevanza ben più profonda in quanto il comprendere è inteso come un modo d'essere, il modo proprio d'essere dell'uomo. Non soltanto il discorso e la scrittura, ma tutte le creazioni umane sono compenetrate di un senso, che è compito dell'ermeneutica estrarre». Il senso di una pratica sociale interpretativa è la finalità generale dell'impresa di cui si tratta. Esso precede e illumina le azioni che sono poste al suo interno. Queste azioni possono essere corrette o non corrette (convenienti o sconvenienti, giuste o ingiuste, buone o cattive) in relazione a ciò a cui mirano, cioè propriamente possono essere sensate o insensate. Da questo punto di vista il senso di una pratica sociale è un compito a cui s'è chiamati, un'impresa che s'intraprende, un obiettivo generale che si persegue. Ciò significa che il senso che sta alla base della comprensione ermeneutica ha un carattere pratico e che una filosofia ermeneutica del diritto non potrà che essere una filosofia pratica [Viola 1999].

G. Si palesa, pertanto, evidente tutta la differenza tra l'approccio giuspositivistico al testo e quello proprio dell'ermeneutica giuridica. Il primo ritiene, infatti, che tutto il senso sia immanente al testo e racchiuso in esso. Il giuspositivismo non si caratterizza in quanto afferma che tutto il diritto è prodotto dell'opera umana -cosa per tanti versi accettabile-, ma fondamentalmente per il fatto di sostenere lo «stare in se stesso» del diritto positivo, cioè l'identificazione fra il senso del diritto e i testi giuridici ovvero -il che è lo stesso- l'autolegittimazione del testo. Ciò vale sia nel caso che i testi giuridici si pensino come ormai assolutamente indipendenti dai loro autori, sia nel caso che li si consideri sempre come luogo di manifestazione delle intenzioni autoritative. In ogni caso qui il senso è inteso come un dato di fatto. Nella prospettiva ermeneutica, invece, non è un testo ad avere un senso, ma un senso ad avere uno o più testi [Hruschka]. Ciò significa che è il diritto in quanto senso specifico dell'operare umano a precedere e conferire significato ai testi, che proprio per questo sono considerati «giuridici». L'interpretazione è legata alla positività fino al punto da potersi affermare che la stessa positività del diritto è il risultato d'interpretazioni e il principio di altre interpretazioni. Il senso propriamente non lo si interpreta, ma lo si comprende, e ciò dà luogo ad una catena infinita di eventi interpretativi. La questione metodologica della correttezza dell'interpretazione è, dunque, subordinata a quella ermeneutica delle condizioni di possibilità della comprensione dei testi giuridici.

H. Il secondo aspetto, che caratterizza una concezione ermeneutica della scienza giuridica, è la tesi che il diritto come linguaggio è fondamentalmente un evento di discorso. Per la filosofia ermeneutica il discorso è quella situazione di linguaggio in cui si attua il comprendere e l'intendersi. All'interno di questa «situazione discorsiva», che è prima di tutto un evento, dovrà poi operarsi il controllo razionale o analitico, ma non è questo che potrà qualificare come «giuridico» l'evento stesso. Al contrario è dal carattere specifico della situazione discorsiva che dipende il modo in cui si possono saggiare le sue pretese di validità. Il discorso non serve soltanto a comunicare le intenzioni dei partecipanti, ma soprattutto a tessere una forma di vita comune. Questa prospettiva impedisce un'assimilazione della filosofia ermeneutica alla pragmatica linguistica [Viola 1997]. Per quest'ultima le intenzioni e le credenze sono il principio direttivo, cioè lo stato di cose che conferisce senso al discorso. Per l'ermeneutica il principio direttivo è ciò di cui si sta parlando o ciò che si sta facendo. È questa la «cosa» del testo ovvero ciò di cui il testo parla. Non si tratta di un significato determinato, come può essere un'intenzione, ma di sottomettersi ad una realtà normativa, cioè a vincoli e a regole. La determinatezza del significato sarà, invece, il risultato dell'interazione comunicativa e degli atti partecipativi. Infatti il diritto, in quanto la «cosa» di cui il testo legale parla, è segnato dall'indeterminatezza.

I. La «cosa-diritto» non è un'idea, non è un valore e non è neppure un insieme di procedure sociali, ma è un'impresa comune tra esseri liberi e autonomi, ma bisognosi gli uni degli altri per realizzare ognuno una vita ben riuscita. Quest'impresa cooperativa si sostanzia in attività guidate da regole ed è volta a coordinare le azioni sociali. Ma tutto ciò è ancora troppo generico, perché potrebbe essere applicato altrettanto bene ad altre sfere della vita pratica, come la morale, la politica e l'economia. Possiamo ragionevolmente ritenere che l'obiettivo della pratica giuridica sia quello della coordinazione delle azioni sociali, della risoluzione delle controversie e della riparazione dei danni dell'interazione. Possiamo anche pensare che la pratica giuridica porti con sé l'esigenza che non tutte le soluzioni dei conflitti siano accettabili, ma solo quelle che si ritengono "giuste" o "non ingiuste". Possiamo forse dire che il valore-guida della pratica giuridica sia la soluzione giusta e pacifica dei conflitti sociali e che ciò normalmente richiede un'autorità legittima che detti criteri di condotta non contraddittori e praticabili. Possiamo forse, infine, notare che l'obiettivo del diritto è quello di offrire standards comuni di azioni per la guida del comportamento dei membri di una comunità politica, cioè quello di creare una rete di regole e di aspettative stabili che consentano ai singoli di esercitare l'autonomia personale in una logica di interazione. Tutto ciò rafforza la convinzione che il "bene interno" della pratica giuridica sia la giustizia delle azioni e delle istituzioni.

J. Se ora ritorniamo ai compiti e ai metodi della scienza giuridica del nostro tempo, dobbiamo renderci conto che l'universo culturale entro cui essa opera ne condiziona la concezione. Oggi questo contesto non è uniforme. Il fatto del pluralismo conduce a due modi principali d'intendere la giustizia e, quindi, la scienza giuridica: come un mero modus vivendi tra culture e dottrine differenti e, quindi, come una scienza meramente procedurale e formale; oppure come un dialogo costruttivo per la ricerca del giusto. Qui non si tratta soltanto di mettere in comunicazione culture diverse, ma anche situazioni differenti, eventi storici lontani nel tempo e aspettative contrastanti. Ciò richiede non solo la capacità di partecipare a un particolare gioco linguistico, ma anche di saper cogliere ciò che una particolare forma di vita può comunicare ad un'altra differente e cosa questa può ricevere dal passato. Il ruolo dell'interpretazione giuridica è stato sempre quello di tradurre pretese normative che provengono dalle forme di vita del passato (o, semplicemente, altre) in quella del presente, che ha con queste particolari legami. Ciò sarebbe impossibile se i contesti storici fossero incomunicabili e chiusi in se stessi, ma allora sarebbe impossibile anche il diritto nel suo concetto normativo. In un certo senso la normatività è ciò che non proviene dal nostro stesso mondo e ne mette in crisi la «normalità».

K. Tutto ciò non significa che la scienza giuridica getti a mare la metodologia del passato. Non è mai stato questo il modo d'evoluzione della conoscenza giuridica, che procede per stratificazione e non già per sostituzione. Per questo la dogmatica giuridica mantiene ancora la sua funzione. Certamente essa deve venire profondamente rivista rispetto alla concezione tradizionale che la vedeva come metodo di lavoro che nel vincolo all'autorità dei testi sistematizza e riproduce il materiale già esistente [Esser]. La dogmatica riconquista un suo spazio in un rapporto più stretto con la prassi e con i casi concreti: la sua funzione e la sua portata si ridefiniscono nella cornice di un concetto di scienza più aperto ad accogliere al suo interno sia i giudizi di valore sia il soggetto interpretante. Infatti, una volta affermata la funzione centrale dell'ermeneutica nel continuo e necessario adattamento dei testi alle circostanze presenti, la dogmatica, distinta e complementare rispetto all'interpretazione, conserva una non rinunciabile funzione ordinativa, riflessiva e di controllo. Essa si esplica istituendo connessioni delle norme tra loro e delle norme con i casi particolari: tutto questo per un fondamentale controllo di coerenza e nella prospettiva di dover successivamente decidere altri casi. Si istituisce così un rapporto di circolarità tra interpretazione e dogmatica, tra esiti dei procedimenti interpretativi e loro introduzione nell'organicità del materiale giuridico complessivo. Quelli che un tempo erano considerati come dogmi indiscutibili del pensiero giuridico, ora sono intesi come consolidazioni della tradizione giuridica aventi una funzione stabilizzatrice, ma non preclusivi di innovazione e di adattamento. «Tra la precomprensione, che è l'atto d'inizio del comprendere giuridico e il reperimento della massima di decisione che è quello conclusivo, si sviluppano una serie di anticipazioni di possibili soluzioni, che grazie al metodo dialogico delle domande rivolte al testo, consentono di consultare i modelli normativi in rapporto alle risposte che possono offrire per il caso in questione» [Zaccaria]. È certamente possibile che il diritto positivo non sia giusto, ma l'interprete è vincolato dal senso stesso del diritto a cercare la soluzione più giusta (o meno ingiusta) tra quelle legittime.

L. In conclusione, la trasformazione in atto nella scienza giuridica registra il passaggio da una concezione della giurisprudenza come riproduzione della volontà dell'autorità politica ad una concezione della scienza come il far valere la ragionevolezza nella formulazione di giudizi e di decisioni che riguardano la vita pubblica. Il diritto positivo nasce come volontà, ma si trasforma in ragione e sopravvive solo a patto di dimostrare di essere in grado di sopportare questo mutamento. Se il diritto è ragion pratica, la ragionevolezza è un criterio irrinunciabile di giustizia.



Riferimenti bibliografici

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